S’AVANZA UNO STRANO RIVOLUZIONARIO di Angelo Ivan Leone
In questo scenario di disgregazione, non solo territoriale, ma anche sociale, politica e, soprattutto, morale, che il nostro Paese visse negli anni ’44 e ’45 e che è datata sin dal ’43, come abbiamo visto, ogni lineare continuità si spezzò nel momento dell’occupazione straniera e della dissoluzione dello Stato che, da avversario, divenne modello e addirittura complice della mafia . La mafia trovò realmente credito in Sicilia, dopo la fine dei combattimenti nell’isola, perché gli anglo-americani dovevano amministrare il territorio e, per il ruolo di sindaco, si affidavano a notabili del periodo pre-fascista e tra questi certo erano numerosi gli uomini di rispetto o d’onore . Alcuni ufficiali auspicavano “un compromesso che magari comporti l’accettazione fino a un certo punto da parte degli Alleati del principio dell’omertà, codice che la mafia realmente comprende e rispetta” .
La decisione di Cosa Nostra di abbandonare il progetto secessionista, che abbiamo visto essere rappresentato dal MIS, portò immediatamente al ritorno verso un più familiare gioco tattico sulla linea della tradizionale trattativa con lo Stato nazionale. Le conseguenze furono immediate e di varia natura.
La prima fu l’azione per recuperare e potenziare il brigantaggio e per farlo diventare, quindi, strumento di interdizione e di ricatto . Questo portò all’esplosione di bande criminali dedite a rapine, saccheggi e sequestri di persona, tra le quali, a parte quella di Salvatore Giuliano, su cui dovremo per forza di cose ritornare, nel palermitano, si segnalavano quelle meno note ed efferatissime dei Badalamenti nell’agrigentino, di Rosario Avila Niscemi, detta per questo la banda dei niscemesi, degli Albanese nelle Madonie, del Trabona nel nisseno e di altre bande sparse nelle campagne, tra le quali spiccavano i capibrigante Dottore, Di Maggio, Labruzzo, Li Calzi, Mulè e Urzì .
La seconda immediata conseguenza dell’abbandono del piano di secessione piuttosto immaginifico del MIS fu la realizzazione di un’operazione che consentì di svuotare l’EVIS, Esercito Volontario Indipendenza Siciliana, togliendogli la matrice ideologica che lo muoveva e trasformandolo in uno strumentale contenitore di semplici e volgari briganti .
Occorre però, prima di addentrarci nelle conseguenze di questi eventi, soffermarci sulla storia del MIS e, in particolare sulla nascita dell’EVIS. Negli anni tra il ’43 e il ’44, il MIS divenne un vero e proprio movimento di massa, che si consentiva addirittura dei messaggi giustizialisti e, a suo modo, rivoluzionari, sebbene abbiamo visto nel primo capitolo che i suoi padri fondatori, dai mafiosi ai vecchi gattopardi, erano tutt’altro che dei giacobini invasati. Fu Finocchiaro Aprile, il capo “ufficiale” del MIS, a dare la stura a questa demagogia nelle piazze di tutta l’isola . Per via di questi messaggi contraddittori, ma infiammati di una retorica rivoluzionaria che accendeva le menti dei giovanissimi, come sempre accade, più che degli altri, nacque il fenomeno di un indipendentismo siciliano di sinistra, che aveva come leader politico l’avvocato Antonino Varvaro.
Un giovane professore dell’università di Catania, Antonio Canepa, radicalizzò ancora di più questo messaggio e, assieme ai suoi studenti, creò un’organizzazione militare che avrebbe dovuto conquistare l’indipendenza siciliana e fare un’ordalistica rivoluzione con le armi. Era nato l’EVIS, nel febbraio- marzo del 1945. Canepa, che ne divenne il comandante più alto in grado, assunse il nome di battaglia di Turri. Formatosi nel fascismo di sinistra, caduto il Duce divenne, come molti, antifascista, lavorando addirittura come agente dei servizi britannici. Dopo il suo ritorno a Catania, come professore di Storia delle dottrine politiche, si professò “patriota siciliano-comunista” e arrivò a concepire la liberazione della Sicilia quale primo passo di una rivoluzione nazionale che avrebbe dovuto realizzare finalmente la giustizia sociale nell’isola .
Per questa nobilissima aspirazione, si pensi a come le plebi, meridionali in generale e siciliane in particolare, versassero in quegli anni di miseria nerissima, Canepa, paradossalmente, si alleò, per esigenze tattiche, con i gattopardi, principi, duchi e baronetti, del MIS e anche con veri e propri mafiosi, oltre che con uomini legati alla massoneria che in Italia, dall’Unità in poi, è onnipresente. Ovviamente, per far digerire queste spericolate manovre tattiche ai suoi rivoluzionari, era solito lanciare a questi ultimi messaggi come questo “Adesso li utilizziamo, poi ci prenderemo le terre” , oppure: “Vogliamo una Sicilia in cui non si perpetui lo scandalo di colossali fortune rette sulla miseria e sull’abbrutimento dei più; soltanto in un regime di vera giustizia sociale potremo dirci indipendenti e liberi” , frasi degne del duca d’Oragua, protagonista de “I Vicerè” che aveva la spinta propulsiva al progresso pari a quella di un gambero.
Ora immaginate che cosa pensassero di tali propositi, o spropositi, rivoluzionari personaggi del calibro, appunto, di Finocchiaro Aprile o mafiosi veri e propri come Calogero Vizzini, che avevano già deciso di abbandonare la linea del separatismo. Antonio Canepa, certo almeno più simpatico, idealisticamente parlando, rispetto al suo alter ego Salvatore Giuliano, fu anche lui eliminato, al pari del bandito di Montelepre. Il comandante Turri venne, infatti ucciso, insieme a due suoi giovanissimi studenti, il 17 giugno del 1945, su una strada dell’Etna, al bivio Randazzo – Cesarò, al ritorno da una visita al primo campo militare del suo esercito di volontari .
Il credo di Canepa, la sua parabola e la fatale eliminazione dimostrano molto meglio di qualsiasi studio, purtroppo, quanto la mafia avesse abbandonato la linea separatista e tornasse ai tradizionali criteri di trattative con lo Stato, da chiunque questo fosse rappresentato. Questo cambiamento avveniva tramite un assassinio perché la mafia non è un’associazione politica: è, appunto, un’associazione criminale e, al posto di far proclami per far capire le proprie idee, uccide. Purtroppo crediamo che si faccia capire meglio che facendo proclami.
Sempre a riguardo di questo inedito cocktail tra mafia, Vizzini, residuati sanfedistici, Finocchiaro Aprile, e idealismo di sinistra, Canepa, che interessò non solo il MIS, ma l’intera Sicilia, riportiamo un avvenimento accaduto a Villalba.
Il 16 settembre 1944, arrivò nella città amministrata da Vizzini e dal nipote Benedetto Farina, i quali si alternavano come sindaci alla guida della cittadina, un camion carico di militanti comunisti che accompagnano il leader regionale del partito: Girolamo Li Causi. Vizzini gli andò incontro e gli offrì un’ospitalità sincera chiedendogli soltanto che essi evitino di riferirsi a questioni locali “per rispetto alla ospitalità che viene loro offerta” .
Li Causi, tuttavia, non rispettò tale consegna e si presentò in un comizio nella cittadina e, “quando il leader comunista passa a criticare la gestione clientelare dei subaffitti messa in atto dai cattolici ad opera di un gabellotto”23, Don Calò urlò “E’ falso” e si scatenò la “babbilonia” , con persone che iniziarono ad esplodere colpi d’arma da fuoco e a lanciare bombe a mano” . Il bilancio di questo “proclama” politico mafioso riportò 14 feriti, tra cui lo stesso Li Causi, il quale, secondo la leggenda, “col dito puntato contro l’assalitore” gridava “Perché spari, a chi spari? Non vedi che stai sparando a te stesso?” .
Il truce episodio dimostra come la sinistra vedesse, in quel periodo, l’organizzazione mafiosa come un’anomalia siciliana nello schema normale della lotta di classe.
L'Italia da quella situazione post-bellica non si è mai risvegliata completamente. Il fenomeno mafioso, apparso inizialmente come un éscamotage per tenere a bada la popolazione allo sbando dopo la seconda guerra mondiale e l'occupazione anglo-americana, era già ben radicato nella struttura sociale di tipo feudatario della Sicilia in particolare.
RispondiEliminaDurante il fascismo le tendenze mafiose di diverso stampo e caratteristiche - tutte però riconducibili ad un'organizzazione verticistica criminale, conseguenza non ultima l'annessione forzata al regno d'Italia (1861, con l'assedio di Gaeta) - erano state ibernate o costrette ad emigrare oltreoceano.
Con la fine della guerra e con la nascita della Repubblica italiana nel 1948, il fuoco che covava sotto la cenere ha portato le varie organizzazioni di stampo mafioso a ricompattarsi nuovamente per sfruttare le ingenti risorse e l'iniezione di denaro dagli USA per la ricostruzione dell'Italia, ridotta ormai ad un cumulo di macerie.
Su queste ultime stiamo sospesi ancora oggi, mai veramente maturi come popolo, con una forbice ideologica ed economica tra nord e sud; mai veramente fieri di appartenere ad una nazione come l'Italia, terra di grandi culture dal grande impero romano al retaggio rinascimentale.